L’“autunno interiore” nell’arte come melanconia dell’anima

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L’“autunno interiore” nell’arte come melanconia dell’anima

L’aria si agita e l’oscurità avanza, mentre il Sole si china, fino a lambire l’orizzonte. Le foglie, come crisalidi al contrario, mutano non per vivere ma per morire, solo che ancora non lo sanno. Come in uno di quei concerti ben orchestrati, dove il climax si raggiunge un attimo prima che cali il sipario, le loro tinte cangianti sono il preludio della caduta, della disgregazione. È come se la vita, in questo attimo sospeso, tirasse il fiato prima di lasciarsi inghiottire nelle viscere della bruma.

Sarà che ci sono nato, ma per me l'autunno non è mai stato soltanto un fenomeno meteorologico, né un semplice accadimento naturale; l’autunno è il mio tempo dell’anima, una stagione da vivere tra le pieghe della memoria, nelle ombre dei pensieri e con i richiami dei sensi. Il suo odore caldo e acre – così intenso da poterlo toccare – mi invoglia a ricongiungermi con il primordiale; la sua bellezza inquieta e fugace mi invita a rallentare i ritmi, ad accogliere il cambiamento e la rinascita. Perfino la morte, vista da questa prospettiva, non fa più così paura.

"Due uomini contemplano la Luna" (1825-30), C. D. Friedrich - New York, Metropolitan Museum of Art

Beninteso, non ho la pretesa di essere la prima “vittima” di queste suggestioni. Esse hanno attraversato le epoche e gli stili dell’arte, ispirando le più diverse personalità a dare forma a stati d'animo inafferrabili, ma non per questo meno reali. Così, l'autunno interiore, costantemente in bilico tra i suoi estremi, riflette i mutamenti di contorni e sfumature, pur restando fedele al suo nucleo essenziale di malinconia, metamorfosi e, infine, accettazione del destino. Un sottobosco nel quale ci addentreremo, alla scoperta di alcuni tra i migliori esempi artistici di questo genere.

L’autunno nel Rinascimento: una stagione di passaggio

Se il Rinascimento si è fatto una fama immortale, gran parte del merito lo deve a quella corrente chiamata Umanesimo, una sorta di illuminismo ante litteram. È il periodo in cui la spiritualità e le superstizioni medievali lasciano il posto ad approcci più razionali e scientifici, capitanati dalla forza della ragione. Tutto ciò ha un forte impatto anche sugli artisti, spingendoli a esplorare la natura con spirito indagatore, e a raffigurarla con metodi innovativi.

Quanto tutto questo c'entri con il nostro tema ce lo dimostra Giuseppe Arcimboldo, pittore milanese fuori dagli schemi della sua epoca, e non solo. Il suo stile pionieristico e visionario – Dalì lo definirà “il precursore del surrealismo” – è perfettamente figlio di questa concezione. Ne è un esempio il suo “Autunno” (1573), parte della famosa serie delle stagioni; qui l’artista “assembla” un volto umano con frutti, ortaggi e foglie, raffigurando una maturità quanto mai effimera, emblema di un ciclo che giunge al termine: un fragile equilibrio tra floridezza e decadenza.

"Autunno" (1573), Arcimboldo - Parigi, Louvre

Con le sue creazioni, bizzarre e a tratti inquietanti, Arcimboldo ci suggerisce che l’abbondanza stessa contiene il germe della caducità, ovvero che nulla è per sempre; eppure, egli si aggrappa con ironia all’idea che l’uomo, attraverso l’arte, possa ricomporre ciò che la natura si appresta a distruggere. Un tema che affonda le radici nel concetto di vanitas, tanto caro al Rinascimento. È un gioco ingegnoso, ma anche tragico: ogni volto, ogni frutto, ogni foglia ci parla della bellezza del divenire, ma anche dell’inevitabile scorrere del tempo. Un volto fatto di frutti è già destinato alla marcescenza, proprio come l'uomo che lo abita.

Dite quel che volete, ma a me quest’opera – con le altre della serie – pare il “minestrone” più geniale della storia (dell’arte).

Il barocco e la teatralità della decadenza

Nel Barocco, dove tutto è drammatico e plateale, neppure l’autunno si sottrae alla scena. Le tensioni sociali, religiose e politiche dell’epoca (tempi di crisi economiche, guerre e cambiamenti sociali - vi ricordano nulla?) provocano un profondo cambiamento nella percezione dell'individuo e del suo rapporto con la “realtà”. In questo contesto tumultuoso, uno spirito ancor più irrequieto si fa strada.

È quello del giovane Caravaggio, che nel suo “Fanciullo con canestro di frutta” (1593) supera i suoi modelli fiamminghi, restituendoci una rappresentazione della natura che non è solo tecnica, ma anche “viva”. Lontano dalle idealizzazioni manieriste, il maestro del chiaroscuro – anticipatore per certi aspetti delle moderne tecniche fotografiche – ci getta davanti alla verità cruda e sensuale del creato. Così, il protagonista non è una figura angelicata, né un'astrazione allegorica: è un fanciullo vero, comune. Il suo è un volto delicato, ma non perfetto; la luce scivola su di lui in modo palpabile, svelandone l'umanità; la posa, per quanto ben studiata, è naturale.

"Fanciullo con canestro di frutta" (1593), Caravaggio - Roma, Galleria Borghese

Il cesto di frutta, poi, non è solo un accessorio, ma diventa co-protagonista del quadro. I frutti di stagione sono turgidi, eppure già segnati dal tempo: la loro buccia comincia a mostrare le prime imperfezioni, macchie di una bellezza destinata ad avvizzire. D’altronde, nel Barocco, freschezza e decadimento convivono nel concetto stesso di natura morta; l’autunno interiore cessa di essere un momento transitorio e diventa il tentativo di restare aggrappati a una bellezza che non è mai stata così intensa come nel momento in cui inizia a svanire.

Tematiche particolarmente attuali – o forse solo atemporali? – che mettono l’uomo di fronte alla scelta di accettare o rigettare i segni che il tempo infligge su corpo, mente e spirito.

Il Romanticismo e la solitudine dell’uomo davanti alla natura

Con il Romanticismo si amplificano l’introspezione e la solitudine dell’uomo davanti a una natura che è il riflesso del suo animo tormentato. L’Ottocento è il secolo della rivoluzione industriale, che segna una progressiva alienazione dall’ambiente naturale in nome di una nuova “modernità”; per i romantici, la natura diventa sia un rifugio dal logorio della vita di città, sia un campo di battaglia per il conflitto tra l'uomo e le forze ancestrali.

Caspar David Friedrich, maestro del Romanticismo tedesco, è l'emblema della sua epoca. Friedrich non dipinge solo paesaggi, ma sentimenti: opere come "Cimitero del monastero nelle querce" o "Abbazia nel querceto" rappresentano una natura che si spoglia dei suoi ornamenti e accoglie l'uomo nel suo abisso esistenziale. L'autunno è un periodo di raccolta ma anche di perdita, di crisi interiore, di separazione. Ma questa visione non è nichilista: per Friedrich, la ciclicità naturale e spirituale trascende il dolore terreno e supera il concetto di “fine”.

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"Monaco in riva al mare" (1808-10), C. D. Friedrich - Berlino, Alte Nationalgalerie

In contrasto con la semplice contemplazione della bellezza transitoria, egli ci pone di fronte a un paesaggio che è al contempo familiare e sconosciuto, domestico e spaventoso, intimo e distante. L'uomo, spesso rappresentato come una figura minuscola, quasi assorbita dall’ambiente, appare di fronte all'immensità della natura come un viaggiatore solitario, piccolo e impotente, in balia del destino e del tempo. L’aspirazione umana e la ricerca di un significato si scontrano con un mondo che sembra sempre più alieno.

Se Arcimboldo giocava con la natura per rappresentare la fine del ciclo, Friedrich la rende maestosa e impenetrabile. Il suo autunno interiore è fatto di silenzi e di vuoti, di attese piene di domande senza risposta. (A Marzullo piacerebbe questo paragrafo, ndr.)

L’impressionismo: il colore dell’effimero

Nel XIX secolo, con l’affermarsi dell’Impressionismo, l’autunno si rivela in tutta la sua vivacità cromatica e la sua fugacità. Per gli impressionisti, come Claude Monet e Camille Pissarro, l’attenzione all’effimero è il fulcro della visione artistica, e l’autunno, con i suoi mutamenti rapidi e le sue sfumature cangianti, diventa il paradigma perfetto per questa sensibilità. Affascinati dall’idea di catturare l’attimo, essi vedono nel cambiamento repentino delle condizioni della natura, tipico di questa stagione, un momento di grande complessità visiva, oltre all'opportunità di esplorare e sperimentare con la luce e il colore.

Monet, in particolare, nella sua serie dedicata alle Ninfee o nei suoi celebri pioppi lungo l'Epte, rappresenta una stagione luminosa, nella quale non v’è traccia di decadenza: le cromie calde che si riflettono nei corsi d’acqua e sotto cieli velati di nebbia creano un gioco di riflessi che sfugge alla fissità della tela, in una celebrazione dell’attimo che da effimero si fa eterno: un inno alla luce, un’ode al colore.

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"Le bras de Jeufosse, automne", C. Monet (1884) - Collezione privata

L’autunno impressionista è dunque fatto di pennellate veloci che cercano di afferrare quel poco che resta prima che tutto si dissolva. In questo senso, l’autunno interiore si declina come un abbandono sereno alla natura, senza drammi né disperazione, ma con la consapevolezza che tutto scorre. E con la convinzione che la bellezza risiede proprio in questa impermanenza.

Un approccio rigenerante per gli occhi e defaticante per l’anima. Prendo appunti, perché qui c’è molto da imparare.

Munch e il Novecento: l’autunno dell’io

Il Novecento è il secolo delle guerre mondiali, delle inquietudini, dell’urbanizzazione che crea alienazione. In questo quadro a tinte fosche, anche l’autunno assume nuove sfumature e si fa specchio delle ansie e del disagio esistenziale che caratterizzeranno il secolo breve. Il pioniere Edvard Munch, l’artista tormentato della solitudine e dell’angoscia, ci restituisce una visione cupa, popolata di figure spettrali e paesaggi soffocanti, simboli di un mondo interiore che si sgretola sotto il peso di certezze che si disgregano.

Il suo “Autunno” (1898 c.ca) non è solo una rappresentazione stagionale, ma una metafora dell’isolamento di una psiche che si confronta con il proprio vuoto. D’altra parte, l'Espressionismo – il movimento a cui Munch viene associato – ha fatto della distorsione visiva e dell’intensificazione emotiva (che poi diventa cromatica, e viceversa) i suoi tratti distintivi. Nei suoi paesaggi autunnali sono immortalati evidenti sensi di rimpianto e di riflessione sul passato: le foglie morte, gli alberi nudi e i cieli vuoti sembrano richiamare ricordi di esperienze perdute, di affetti scomparsi e di un tempo che non può tornare. Tuttavia, la nostalgia di Munch è intrisa di angoscia e rimorso, più che di dolce ricordo. Per lui, l’autunno è un memento mori, un richiamo all’impotenza dell’uomo di fronte al suo ineluttabile destino.

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"Autunno", E. Munch (1897-98)

L’autunno di Munch è anche l’autunno della modernità, una stagione fatta di ombre, di silenzi, di paure. Qui l’autunno interiore si manifesta come una resa, un’accettazione della propria finitezza, ma anche un confronto serrato con il senso di vuoto che ne deriva. Un vuoto che risucchia l’Uomo, lasciandolo nudo di fronte alle sue stesse ansie e paranoie. In fondo, l’autunno di Munch è anche un po’ l’autunno di tutti noi. (sigh!)

L’autunno come specchio dell’anima

"Finché ci sarà l’autunno non avrò abbastanza mani, tele e colori per dipingere la bellezza che vedo." (Vincent Van Gogh)

Gli artisti ci hanno insegnato ad approcciarci all’autunno con uno sguardo sulla nostra condizione esistenziale, prima che sulla realtà delle cose. Ci hanno mostrato uno spazio interiore, un rifugio per le nostre inquietudini, ma anche l’importanza di vivere il presente, per quanto effimero possa sembrarci – e, anzi, di goderne proprio perché è sfuggente. Ogni epoca ha disegnato un volto diverso, eppure familiare, a uno dei protagonisti di quella tragicommedia che chiamiamo vita. Molte maschere dietro le quali si celano altrettante anime, tutte accumunate da una medesima sorte.

Una volta pubblicato l’articolo me ne andrò alla ricerca della perfetta ambientazione romantica, e lì trascorrerò un po’ di tempo con il mio Sturm und Drang, proprio come in un quadro di Friedrich. Perché è solo quando tutto è avvolto dalla nebbia che posso cogliere i veri contorni del mio essere: lì, lontano dalle distrazioni del mondo, ritrovo il mio perfetto equinozio. Lì, la mia notte si ricongiunge finalmente al mio giorno.

Tenterò allora di mettere in pratica la grande lezione dell’arte: cercherò il coraggio di osservare la bellezza che si spegne, e di riconoscere, in quel lento svanire, il mio stesso destino.

(Immagine di copertina: "Tramonto" (1872), C. Pissarro - Collezione privata)

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