L’Estetica Solitaria di Edward Hopper
Il maestro del silenzio
Che colori ha il silenzio? C'è luce nella profonda solitudine? La risposta è Edward Hopper, indiscusso maestro del realismo americano, creatore di un gigantesco immaginario personale legato alla società moderna “made in USA”. La luce è il mezzo espressivo più potente e personale di Hopper. La usò come elemento attivo nei suoi dipinti per modellare forme, definire l'ora del giorno, stabilire uno stato d'animo e creare "racconti" pittorici in contrasto con zone d'ombra e di oscurità.
"Non sono le figure che mi interessano, ma la luce che penetra e la notte intorno"
Il silenzio e la solitudine sono la cifra della sua stessa vita: per decenni visse in un modestissimo appartamento nel brulicante quartiere newyorkese del Greenwich Village senza però averne mai frequentato la scena artistica e sociale. Hopper preferisce "sentire" la sua America a modo suo: percorrendo le interminabili “routes” insieme a sua moglie Jo (attraversò gli USA in auto ben 5 volte tra il 1940 e il 1950), seduto su una comoda poltrona di un cinema semi-deserto (fu un vero “divoratore” di film fin dall'infanzia), occhieggiando le finestre dei piccoli appartamenti di città durante i suoi viaggi da pendolare sull'EL-train di New York.
Le "distanze psicologiche"
In una società in cui già dagli anni '30 essere visibili significava "esistere", Hopper sceglie la via dell'alienazione. "Dipingo ciò che sento, non ciò che vedo". Il suo "occhio interiore" coglie e rappresenta ciò che egli stesso è incapace di comunicare con le parole. Da un lato i grandi orizzonti naturali: le spiagge bianche, il faro, le vele gonfiate dal vento sull'oceano (The Long Leg), le case di villeggiatura di Cape Cod, il deserto e il Grand Canyon, un tramonto mozzafiato nel mezzo del nulla (Railroad Sunset), la foresta che incombe minacciosa dietro il desolato distributore di benzina (Gas), come anche quartieri fantasma (Early Sunday Morning) non sono altro che l'incessante anelito dell'uomo moderno verso la libertà. Quando gli sconfinati orizzonti lasciano il posto alla presenza umana l'atmosfera si carica di attesa e "suspense": figure solitarie - perlopiù femminili - perse nei loro pensieri in attesa di qualcosa o qualcuno che dia un senso alla loro vita ma che potrebbe anche non arrivare mai. Hanno sguardi impenetrabili, rivolti verso qualcosa che va oltre il quadro e che sfugge all'osservatore. (Morning Sun, Hotel Room, Automat, Morning in a City, New York Movie, Compartment C Car). I suoi soggetti abitano stanze quasi vuote e sono sempre soli, anche quando hanno qualcuno accanto. Tristi o malinconici, inquieti o serafici ma sempre in silenzio, sono uomini e donne chiusi e curvi sotto il peso dell'incomunicabilità (Nighthawks, Chop Sue, Hotel Lobby, Summer Evening, Room in New York).
Hopper e il cinema: attrazione fatale
Hopper è un pittore lento e metodico la cui ricerca va al di là del mero realismo. Per ogni soggetto prepara infiniti schizzi e bozzetti: il suo gusto per l'inquadratura fotografica è unico nei tagli e nei colori. Come un regista di professione Hopper colloca meticolosamente i personaggi sulla scena, ne dispone gli oggetti e ne decide le luci. "Per intendere Hopper è necessario riferirsi alla fotografia e al cinema [...] ogni dipinto è un fotogramma di un film che non vedremo, di cui abbiamo situazioni, elementi, protagonisti, senza apparente significato ma a cui dovremmo attribuire un significato immaginando le storie dei personaggi che non ce le raccontano, ma che lasciano intuire la vita, le vite" (V. Sgarbi) o per dirlo con le parole dell'interessato: "Tutte le risposte sono lì, sulla tela. Ero più interessato alla luce del sole sugli edifici e sulle figure che a qualunque altro tipo di simbolismo".
In realtà il simbolismo c'è, eccome! Dalle sue opere il cinema attinse - ieri come oggi - a piene mani. Lo stesso Hopper fu fortemente affascinato dal cinema: molte delle sue tele nacquero in un periodo in cui il cinema stava diventando una vera e propria industria e al tempo stesso lo specchio della cultura americana contemporanea. Dagli anni '40 il suo "occhio interiore" si evolve in "occhio cinematico", che usa la luce come se fosse un oggetto materiale e scruta i suoi soggetti in un atto quasi "voyeuristico" tanto che molte tele sembrano "scatti rubati". Non a caso proprio in questo periodo nasce il genere cinematografico detto "noir" che gioca su luci e ombre, donne fatali, cinismo, relazioni interpersonali estranianti e velate allusioni erotiche. Le finestre - come tanti occhi - sono per Hopper lo strumento di dialogo tra il mondo esteriore e il mondo interiore. I soggetti sono spesso ritratti vicino a delle finestre (o un'altra qualsivoglia fonte di luce) catturati nei loro momenti più vulnerabili, nella sicura intimità delle loro stanze con i loro pensieri più reconditi e inconfessabili come unica compagnia.
Il binomio finestre/film noir non può che condurci al grande classico del cinema americano di A. Hitchcock "La Finestra sul Cortile" in cui le finestre sono l'essenza del film, inquadrate in sincronia per mostrare il microcosmo del condominio e le vite segrete/inquietanti dei suoi abitanti viste attraverso gli occhi del fotoreporter costretto all'immobilità a causa di un incidente. Per questa ambientazione Hitchcock prende spunto da Night Windows e House at Dusk, ma molti altri quadri saranno da ispirazione per altrettanti film, primo fra tutti House by the Railroad in cui forti raggi di sole proiettano profonde ombre sull'edificio vittoriano, creando un inquietante gioco di luci perfetto per la villa di "Psycho".
Omaggi dal cinema moderno
Nel 2020, in occasione della prima mostra su Hopper in Svizzera, Wim Wenders realizza il cortometraggio “Two or three things I know about Hopper”, ovvero una dichiarazione d'amore di 14 minuti in cui 14 quadri prendono vita e racconta in maniera poetica non solo quanto il cinema debba a Edward Hopper ma soprattutto in quale misura lo stesso Hopper ne fosse affascinato. Anche la produzione cinematografica di Wenders si è spesso fusa con i dipinti di Hopper. In “L’amico americano” e “The End of Violence – Crimini invisibili” ricrea l’esatta replica del bar dell’iconica tela Nighthawks, mentre in “Paris, Texas”, mostra i paesaggi urbani di un’America che va alla deriva verso la modernità e sprofonda nella solitudine esistenziale. Anche David Lynch, come Hopper, ha rimosso la facciata della perfetta vita americana per metterne in luce gli aspetti più sinistri (“Twin Peaks” – “Velluto Blu”) e le donne in “Mulholland Drive” sono ispirate dalle donne fatali dei suoi quadri.
Parlando di cinematografia attuale, "Foglie al vento" di A. Kaurismäki - premio della giuria a Cannes 2023 - può senza dubbio definirsi un film "hopperiano". Un film che fa bene al cuore e alla mente in cui la parola d'ordine è minimalismo e il filo conduttore è la solitudine di due persone abbandonate a loro stesse alla ricerca di qualcosa di salvifico: l'Amore inteso come bisogno dell'altro, come abbraccio tra anime affini. Nel mezzo, recitazione sublime, interminabili silenzi interrotti da battute fulminati e surreali, e sguardi che svelano ciò che accade veramente nei loro cuori. E solitudine, e malinconia...
Gli ambienti sono scarni, c'è un bar karaoke malandato, tanto quanto i suoi avventori, canzoni finlandesi e locandine di film anni '60. Ma soprattutto ci sono le inquadrature fisse, le luci che tagliano il buio del Baltico e che inondano i volti dei protagonisti restituendo loro quella speranza che silenziosamente aspettano davanti a una finestra illuminata, seduti su un vecchio divano, vicini ma senza mai sfiorarsi, o in attesa davanti a un cinema d'altri tempi senza mai incrociare i loro sguardi. Una fotografia sublime sulla solitudine degli esseri umani che, come nelle tele di Hopper, ci appaiono disperatamente romantici e commoventi.
“La grande arte è l’espressione esteriore della vita interiore dell’artista, e questa vita interiore si traduce nella sua personale visione del mondo”. (E.Hopper)
(Testo: Zebra a Pois - Foto di copertina: E. Hopper, "Automat", 1927