Undicesimo comandamento: vivi la vita come se fosse un K-Drama (o quasi)
“Non ho una casa in cui tornare. Qui dentro almeno ho una possibilità. Ma fuori? Non ho niente fuori!”
Vi dice qualcosa questa frase? Probabilmente no, ma sicuramente vi ha catapultati all’interno di una vita fatta di stenti e patimenti. Una vita che, proprio perché caratterizzata da fallimenti e privazioni, può essere messa in discussione fino alla morte. È quello che accade in “Squid Game”, ed è grazie (o per sfortuna?) a questa serie che ho ceduto allo streaming e al fascino di Netflix. Ho imboccato, senza rendermene conto, una strada da cui è difficile fare ritorno.
I K-Drama sono diventati nel giro di pochissimo tempo una vera e propria dipendenza e, a giudicare dai numeri, non sono stata l’unica a lasciarsi coinvolgere.
Ma cosa si intende con K-Drama? Con K-Drama si fa riferimento a tutte quelle serie televisive in lingua coreana realizzate in Corea del Sud.
Tecnicismi a parte mi sono chiesta, mentre divoravo una serie dopo l’altra, per quale motivo ne fossi particolarmente attratta, e mi sono data più di una risposta. I coreani, senza distinzione di genere, sono in linea di massima molto belli! Parliamo ovviamente di una bellezza orientale e, per natura, diversa dalla nostra. Il volto è estremamente pulito, i capelli appaiono setosi e i loro corpi (glabri) sembrano delle vere e proprie sculture. Non è difficile guardare interi episodi dedicati all’estetica: la cura della pelle diventa un vero e proprio rituale. E mentre noi occidentali usiamo distrattamente il contorno occhi loro utilizzano addirittura un approccio olistico, seguono un’alimentazione sana e la skincare prevede una stratificazione a cui noi arriveremo, forse, tra vent’anni.
Oltre la superficie, oltre i trattamenti estetici e le apparenze, i K-Drama hanno quasi sempre una funzione di denuncia sociale e non si limitano soltanto al mero intrattenimento. Sono capaci, tra le altre cose, di soddisfare tutti i gusti e generi: storico, medical, romance, horror e fantasy. La Corea è un paese controverso e lontanissimo dal nostro (non solo a livello geografico) e guardare un K-Drama vuol dire avere la possibilità di lasciarsi trasportare in una dimensione nuova e affascinante, fatta di tradizioni, regole, usi e costumi estremamente distanti dalla nostra quotidianità.
Non cedere al contatto fisico è possibile
“Le parole possono avere un peso anche senza un corpo che le sostiene”, di questo sono fermamente convinta e i K-Drama sembrano darmi ragione.
Ciò che emerge, prestando nemmeno troppa attenzione, è la quasi totale assenza di contatto fisico.
Il cinema occidentale, compreso quello italiano, ci ha abituati a frequenti scene di sesso: anche quando la trama ne farebbe volentieri a meno.
La Corea ci dimostra invece che una storia ben costruita può reggersi sulle proprie gambe, e può farlo senza strizzare l’occhio a quei dettagli devianti che spesso distraggono lo spettatore.
In “My Name” la protagonista è una giovane donna appartenente ad un’organizzazione criminale composta da soli uomini e che, dopo la morte del padre, viene inviata come infiltrata all’interno della polizia: ambiente prettamente maschile anche in quel caso. Ci sarebbero quindi tutti i presupposti per innescare, all’interno della trama, una storia d’amore o una relazione sessuale, ma non succede. Quello che accade invece va in una direzione nettamente opposta: in questo caso, come in molti altri, i personaggi vengono approfonditi nel dettaglio a partire dal loro passato offrendo così allo spettatore la possibilità di comprendere davvero il peso di determinate scelte.
Lo stesso accade in “Non siamo più vivi”, in cui l’esperimento di un professore di scienze porterà allo scoppio di un’epidemia zombie che si propagherà ad una velocità disarmante. Horror e sesso sono da sempre un’accoppiata vincente ma anche in questo caso le dinamiche della serie si muovono in un’altra direzione: l’esercito coreano userà le maniere forti per contrastare il virus e il parallelismo con il Covid-19 è presto fatto.
La lista potrebbe continuare: i K-Drama non cedono al contatto, almeno non nel modo in cui siamo abituati.
Per formazione, o deformazione, la cinematografia a cui siamo assuefatti piazza baci, abbracci e molto altro all’interno di una pellicola che potrebbe svolgersi bene, e anche meglio, senza.
In un K-Drama di circa 10 episodi i protagonisti interagiscono sulla base di una trama solida e in genere poco contorta, parole come -onore/disonore- sono particolarmente ricorrenti e i silenzi, aiutati da musiche ricche di pathos e suspense, spesso prendono il posto dei dialoghi.
Dallo schermo alla vita reale
Ricorrenti, ed eseguiti a regola d’arte, i giochi di sguardi: capaci di raccontare anche quello che gli attori non esprimono a parole. I baci sono estremamente rari e pudici, lo stesso vale per carezze e strusciamenti. Con un po’ di fortuna i protagonisti si stringeranno la mano durante l’ultimo minuto dell’ultimo episodio lasciando all’immaginazione, sempre più sottovalutata, il compito di fare il resto.
Il contatto si gioca tutto su un altro livello, quello mentale. È questo dettaglio, più di tutti gli altri, ad allontanare l’Oriente dall’Occidente. Siamo carenti di un pudore che non si insegna, esibiamo senza remore ciò che siamo (talvolta anche ciò che NON siamo) e crediamo fermamente nell’alchimia fisica che due corpi sono capaci di generare. Non sarà che per colpa di quel “tutto e subito” rischiamo di perderci ciò che conta davvero? Dallo schermo alla vita reale il passo è breve. Vale la pena sacrificare la sacralità del silenzio in favore di un approccio rumoroso e spesso frettoloso? Che valore ha oggi il -non detto-?
Le parole hanno un peso e noi spesso tendiamo a sprecarle. A volte dovremmo avere il coraggio di -lasciare intendere- all’altro ciò che pensiamo, o proviamo, spingendo i nostri rapporti umani verso un confine netto capace di indicarci di chi possiamo fidarci e di chi no. Sottovalutiamo il potere che potrebbe nascere da un'intesa mentale: la connessione tra due cervelli, a differenza di quella che può crearsi tra due corpi, può resistere al tempo e nel tempo.
Parlare di più con gli occhi e meno con le parole, complicato ma necessario.
Consumare e, di riflesso, consumarsi in fretta appaga il
nostro piacere nell’immediatezza lasciando un vuoto incolmabile in quel lasso di tempo che chiamiamo -dopo-, e di cui tendiamo a disfarci troppo velocemente.
I k-drama e il valore del tempo
Ecco! I K-Drama a mio avviso preservano quel -dopo- conferendogli un valore che noi occidentali raramente teniamo in considerazione. Dovremmo imparare da loro, almeno in questo. In Oriente il tempo è prezioso e anche bere una semplice tazza di tè diventa una vera e propria esperienza di vita.
La nostra è l’epoca delle rivendicazioni, tutte sacrosante, e con le lotte a cui partecipiamo ci siamo guadagnati diritti che in molti altri paesi sono ancora un miraggio. Possiamo essere disinibiti e, perché no, sconfinare anche nella spregiudicatezza. E… il pudore? Il diritto all'intimità, e alla riservatezza, che fine ha fatto? Perché nessuno lo rivendica più? Perché nessuno crede che sia importante? Ci sopra-esponiamo: abbiamo fatto del nostro corpo, delle nostre relazioni e della nostra vita una vetrina.
Dilapidiamo velocemente un pranzo così come lo facciamo con i rapporti interpersonali. Non sappiamo più riconoscere il gusto di ciò che mangiamo, e che viviamo, perché la fretta ci divora e divora anche la nostra capacità di giudizio.
La parola d’ordine per me è sempre la stessa: FERMARSI, un po’ come accade nei K-Drama che tanto mi piacciono. Fermarsi per riprendere fiato, per osservare la persona che ci piace, per assaporare il retrogusto che ha l’attesa: quella fatta di sguardi, ammiccamenti ed esitazioni.
Potrebbe sorprenderci scoprire che il piacere mentale può essere in grado di sovrastare quello fisico.
“The Glory”: perché deve essere nella tua lista
E se ancora non vi ho convinti a valutare, o rivalutare, l’idea di cedere alla visione di un K-Drama allora è arrivato il momento di giocarmi il tutto per tutto: “ci ho pensato ogni giorno Yeon-jiin. Dove ci saremmo potute incontrare? Avrai avuto tutto. Non ci sarà niente che ti spaventi. Ma in quale luogo avresti potuto avere paura di me? Mi veniva in mente solo un posto: i metri quadri della nostra palestra”. A pronunciare queste parole, che si trasformeranno in una vera e propria sentenza, è la protagonista di “The Glory”. In sedici episodi assisterete alla crudeltà più spietata: quella generata dal bullismo. Nelle scene più cruente Moon Dong-eun viene marchiata a fuoco con una lastra per capelli incandescente. Il suo corpo di adulta sarà inevitabilmente segnato, mani e braccia sfregiate irrimediabilmente. Nella sua testa un unico pensiero: la vendetta e, ancora una volta, i K-Drama non sfrutteranno il contatto fisico. La protagonista non torcerà un capello a chi gli ha fatto del male. Come in una partita di -Go- lo scontro sarà su un’altra dimensione: quella cerebrale.
(Immagine di copertina: Wallpaper della serie "The Glory" Fonte: sportskeeda.com)